L'UE legittima il licenziamento in gravidanza. Scardinata l'ultima frontiera dei diritti
Giovedì 22 febbraio la pletorica Corte di Giustizia Europea – 47 membri e 11 avocati generali, per 4/5 maschi - ha sorprendentemente legittimato il licenziamento di una donna in gravidanza nell'ambito di una procedura di licenziamento collettivo.
Una sentenza degna del peggior Ponzio Pilato, perché da un lato riafferma il valore ancora attuale della direttiva Ue 92/85 che vieta il licenziamento delle lavoratrici nel periodo compreso tra l’inizio della gravidanza e il termine del congedo di maternità, ma dall’altro dà semaforo verde ai licenziamenti quando “non connessi allo stato di gravidanza”. Insomma: incinta o no, se un’azienda inventa la giusta formuletta e giura e spergiura che non ti licenzia perché sei in gravidanza, padronissima di farlo.
Vengono così superate persino le dimissioni in bianco che ancora oggi moltissime donne sono costrette a firmare all’inizio di un rapporto di lavoro, hai visto mai gli venisse in mente di fare un figlio.
La controversia sulla quale si è espressa la Corte arriva dalla Spagna, nella causa intentata nel 2013 da Jessica Porras Guisado contro Bankia S.A., e il tribunale europeo ha richiesto l’applicazione alla lettera della legge spagnola, nonostante i dubbi del giudice locale di secondo grado, giustificando il licenziamento per motivi economici relativi all'organizzazione e alla produzione dell'impresa.
Ancora una volta l’Unione Europea rivela il suo vero unico volto: la difesa dei profitti di banche e imprese a scapito dei diritti delle lavoratrice e dei lavoratori. E c’è da scommettere che una sentenza del genere si sposa perfettamente con l’introduzione in Italia del pareggio di bilancio in Costituzione, che introdurrà così ulteriori e maggiori tagli allo stato sociale, penalizzando in primis le donne.
Infatti in un paese come l'Italia - dove le donne vengono considerate ammortizzatore sociale di un welfare in via d’estinzione; dove, se e quando hanno la fortuna di lavorare, lo fanno in condizioni di maggiore precarietà e ricattabilità, tra part-time obbligatori e dimissioni in bianco; dove il differenziale salariale raggiunge il 20%; dove attraverso il jobs act si continua impunemente a licenziare - non mancherà di certo chi strizzerà un occhio alla infame decisione della Corte di Giustizia europea.
Ma noi non abbassiamo la guardia, respingiamo al mittente i diktat della UE e continuiamo a lottare a difesa dei diritti e della dignità del lavoro e delle lavoratrici e lavoratori.
Lo sciopero generale che abbiamo proclamato l’8 marzo, in concomitanza della giornata internazionale che vedrà le donne di 70 Paesi scendere in piazza, sarà un ulteriore momento per ribadire che non siamo più disposte ad accettare discriminazioni, ricatti, molestie e precarietà.
Unione Sindacale di Base