Intervento di USB durante il 15th World Socialism Forum a Pechino

Nazionale -

Cinzia Della Porta partecipa al Forum dell’accademia marxista di scienze sociali a Beijng China dal 3 a 10 NOVEMBRE 2025

Crisi dell’Occidente e transizione multipolare

1. Mondializzazione e sviluppo delle forze produttive sotto il segno del capitale

La dissoluzione dell’URSS nel 1991 ha inaugurato la fase della mondializzazione capitalista, presentata come destino “naturale” del progresso e della fine delle alternative. In realtà, si è trattato di una riorganizzazione del capitale su scala planetaria, guidata dalle potenze occidentali per aprire nuovi mercati, ridurre il costo del lavoro e avviare un nuovo ciclo di accumulazione fondato sulla finanziarizzazione.
L’apertura dei mercati e l’espansione delle catene globali del valore hanno incorporato miliardi di lavoratori nel circuito mondiale della produzione. Lo sviluppo impetuoso delle forze produttive è avvenuto interamente sotto il segno del Modo di Produzione Capitalista (MPC): sfruttamento e concorrenza come leggi regolatrici universali.
Questa dinamica ha indebolito la sovranità e il lavoro nei paesi centrali, ampliando al tempo stesso la base produttiva nelle periferie. Ma la crescita è stata accompagnata da contraddizioni strutturali: sovraccumulazione, precarizzazione, crisi ambientale e dipendenza dalla rendita finanziaria.
La globalizzazione, nata per consolidare l’egemonia occidentale, ne ha eroso le fondamenta, producendo un riequilibrio di potenza e l’emergere di nuovi poli economici e tecnologici.

2. La crisi strutturale dell’Occidente

La crisi dell’Occidente è ormai sistemica: la crescita non deriva più dalla produzione reale, ma da debito e speculazione. La legge della caduta tendenziale del saggio di profitto si manifesta oggi come dato storico, non come teoria.
La concorrenza globale ha frantumato il mercato mondiale; le catene produttive si ricompongono in blocchi regionali.
L’Unione Europea rappresenta la forma più avanzata della crisi capitalista occidentale: nata per integrare il capitale continentale, è divenuta apparato di governance neoliberale, svuotando le sovranità e subordinando le politiche pubbliche alla logica del mercato.
Polo imperialista in costruzione, la UE sostiene la militarizzazione e l’allineamento alla NATO, mentre le disuguaglianze interne Nord/Sud e Est/Ovest ne mostrano la disgregazione.
Sul piano ideologico, l’Occidente ha perso ogni capacità egemonica: la crisi dello Stato borghese e il declino della rappresentanza politica si accompagnano alla disgregazione sociale.
La competizione per l’egemonia scientifica e tecnologica è oggi centrale: la scienza, ridotta a forza produttiva subordinata al profitto, diventa terreno di scontro globale. La supremazia tecnologica di USA e UE è minacciata dall’ascesa di Cina e India, che contendono il controllo sulle tecnologie di punta, segno che il dominio sulla conoscenza è parte della guerra per l’egemonia mondiale.

3. Guerra e militarizzazione come forma di gestione della crisi

Esaurita la capacità di accumulazione produttiva, la guerra torna a essere la valvola di regolazione del capitalismo occidentale.
Negli USA il complesso militare-industriale costituisce un pilastro economico permanente, e la NATO agisce come strumento di gestione armata dello spazio globale.
Dalla Jugoslavia all’Afghanistan, dalla Libia all’Ucraina, ogni conflitto ha consolidato il dominio euroatlantico e distrutto capitale eccedente.
La guerra diventa politica economica dell’imperialismo: produce domanda, centralizza capitali, rafforza la coesione interna.
L’UE partecipa pienamente a questa logica: aumenta la spesa militare, finanzia l’industria bellica, accetta la subordinazione strategica agli Stati Uniti. Il riarmo e la guerra nel continente segnano il ritorno dell’Europa come campo di battaglia della crisi sistemica dell’Occidente.

4. La transizione multipolare e le sue contraddizioni

La crisi dell’egemonia statunitense apre una fase di transizione multipolare. L’emergere di nuovi poli — Cina, Russia, India, Sud Africa, Iran, America Latina — riflette lo spostamento della capacità produttiva e tecnologica verso le ex periferie.
Il multipolarismo è il prodotto contraddittorio della mondializzazione stessa: rompe l’universalismo occidentale, ma non supera il capitalismo. È il terreno sul quale si ridefiniscono le gerarchie mondiali e le possibilità di autonomia nazionale.
La nuova configurazione del potere mondiale non è stabile: le potenze emergenti sono attraversate da proprie contraddizioni di classe. Tuttavia, l’esistenza di più centri di potere apre spazi di conflitto e di emancipazione, ponendo le basi per un nuovo internazionalismo.

5. L’eredità storica del movimento comunista

Il movimento comunista del Novecento ha lasciato un patrimonio di analisi e di organizzazione che conserva piena attualità.
La pianificazione, la centralità del lavoro e lo sviluppo orientato ai bisogni collettivi restano i punti di riferimento per ogni prospettiva oltre il capitalismo.
Nella fase multipolare riaffiorano soggetti che furono protagonisti del secolo scorso: la Cina, il Vietnam, Cuba e le esperienze latinoamericane che mantengono viva l’idea di una sovranità popolare autonoma.
L’Europa, al contrario, mostra la sterilità del proprio modello di integrazione senza solidarietà, subalterno alla NATO e al capitale finanziario.
Riprendere l’eredità del comunismo significa oggi concretizzarla in una nuova prassi di lotta, capace di connettere le contraddizioni del presente alle esperienze storiche di trasformazione.

6. Antimperialismo e progetto alternativo

L’antimperialismo deve tradursi in progetto politico e non in semplice denuncia morale.
La lotta contro il dominio occidentale implica la costruzione di forme di cooperazione tra popoli, il controllo delle risorse strategiche, la pianificazione democratica e la sovranità popolare.
La guerra permanente mostra che il capitalismo non ha più margini di riforma: distrugge per sopravvivere.
Per questo l’antimperialismo è oggi il terreno decisivo di unificazione delle forze popolari, la condizione per aprire una transizione verso un nuovo ordine sociale internazionale.

7. Il ruolo del sindacalismo di classe

In Europa la crisi e la guerra scaricano i loro costi sui lavoratori: tagli al welfare, inflazione, salari reali in caduta, precarizzazione.
Lo spostamento di risorse verso la spesa militare impone una risposta organizzata e internazionale.
Il sindacalismo di classe, in Italia come negli altri paesi, è alla testa di scioperi e mobilitazioni che collegano la lotta salariale alla critica del Modo di Produzione Capitalista.
La repressione e le restrizioni giuridiche mostrano il timore del potere verso la ripresa del conflitto sociale.
Il sindacalismo di classe deve opporsi non solo al padronato e ai governi, ma anche al sindacalismo complice, che accetta la logica del profitto come dato naturale.
Oggi più che mai, la parola d’ordine “guerra alla guerra” torna di attualità: i lavoratori devono unirsi contro la guerra economica e militare che l’imperialismo euroatlantico impone per sopravvivere.
La lotta contro la guerra e quella per la giustizia sociale coincidono: rappresentano il fronte unico della classe contro l’ordine capitalistico globale.