Intervento di USB durante il 15th World Socialism Forum a Pechino
15th World Socialism Forum a Pechino
Crisi dell'occidente e transizione multipolare
1. Mondializzazione e sviluppo delle forze produttive sotto il segno del MPC
Dopo il 1991, la dissoluzione dell’Unione Sovietica e la vittoria dell’Occidente nel confronto bipolare si è aperta una fase di affermazione “globale” del Modo di Produzione Capitalista: la mondializzazione, presentata come destino inevitabile, segno del “progresso” universale e della fine delle alternative.
In realtà ha rappresentato la riorganizzazione del capitale su scala planetaria: un processo guidato dalle grandi potenze occidentali, finalizzato ad ampliare i mercati, abbassare il costo del lavoro, delocalizzare la produzione e garantire nuovi cicli di accumulazione attraverso la finanziarizzazione.
La liberalizzazione dei capitali, le innovazioni tecnologiche e l’apertura delle economie periferiche hanno prodotto un’espansione impetuosa delle forze produttive.
Le catene globali del valore si sono estese verso l’Asia, l’America Latina e l’Africa, incorporando miliardi di lavoratori nel circuito mondiale della produzione. Questo sviluppo è avvenuto interamente sotto il segno del MPC: lo sfruttamento e la concorrenza internazionale i principi regolatori del sistema.
Questo ha portato a una crescita economica nelle periferie e all’indebolimento del lavoro e della sovranità nei paesi occidentali.
L’estensione globale del MPC ha generato contraddizioni sempre più acute: la tendenza alla sovraccumulazione, la crisi ambientale, la precarizzazione generalizzata e la dipendenza crescente dalla rendita finanziaria.
In questo scenario, i paesi occidentali non hanno più mantenuto il monopolio tecnologico e produttivo del secolo XX.
La globalizzazione, nata come strumento dell’egemonia occidentale, ha finito così per erodere le basi materiali di quella stessa egemonia.
2. La crisi strutturale dell’Occidente
La crisi economica che investe gli Stati Uniti e l’Europa è ormai permanente. La crescita del PIL non è più trainata da produttività reale, ma da debito e speculazione.
Il capitale industriale ha ceduto il passo a quello finanziario, incapace però di riprodursi senza distruggere le proprie condizioni di stabilità. La tendenza alla caduta del saggio di profitto, individuata da Marx come legge immanente del capitale, riemerge come dato storico concreto.
La concorrenza globale ha frantumato l’unità del mercato mondiale. Le catene di fornitura si segmentano, la competizione tecnologica divide il pianeta in blocchi.
La “crisi della globalizzazione” è dunque il segno di un processo di riequilibrio sistemico: il capitale occidentale non è più in grado di controllare lo spazio mondiale della produzione, e tenta di difendere i propri margini di profitto attraverso guerre commerciali, sanzioni e conflitti aperti.
L’Unione Europea incarna in modo emblematico questa contraddizione. Nata come progetto di integrazione economica funzionale al capitale continentale, si è trasformata in un apparato di governance neoliberale.
L’architettura istituzionale dell’UE — trattati, parametri fiscali, indipendenza della BCE — esprime la volontà di svuotare le sovranità nazionali e rendere irreversibili le politiche di mercato.
L’Unione Europea polo imperialista in costruzione si presenta oggi come un dispositivo atlantista che sostiene la militarizzazione e la competizione globale. Le divergenze interne (Nord/Sud, Est/Ovest) ne rivelano la crisi strutturale e il fallimento del progetto di unità capitalistica del continente.
A livello politico e culturale, l’Occidente mostra un progressivo esaurimento della propria capacità egemonica.
Le classi dirigenti non sono più in grado di offrire una visione di futuro, mentre il degrado della rappresentanza e la frammentazione dei sistemi politici rivelano la crisi dello Stato borghese stesso.
L’individualismo competitivo, fondamento ideologico del neoliberismo, si traduce in disgregazione sociale e perdita di coesione.
Uno degli elementi centrali della competizione globale è l’egemonia sullo sviluppo scientifico e tecnologico. Nel 'capitalismo' la scienza non rappresenta un patrimonio universale dell’umanità, ma una forza produttiva direttamente subordinata ai rapporti di potere e alla logica del profitto. Gli Stati Uniti, e in misura crescente l’Unione Europea, hanno utilizzato la supremazia tecnologica come leva per mantenere il controllo sulle catene globali del valore, sulla produzione di conoscenza e sulla comunicazione. La ricerca scientifica, spesso finanziata con fondi pubblici, è stata orientata verso obiettivi funzionali al capitale produttivo, finanziario e militare, contribuendo a rafforzare la dipendenza tecnologica dei paesi periferici.
Con l’emergere di nuovi poli come la Cina, l’India e altri paesi, questa egemonia viene oggi messa in discussione. La competizione per il controllo delle tecnologie di punta — dall’intelligenza artificiale ai semiconduttori, dalle biotecnologie all’energia — rappresenta la forma più avanzata della lotta per l’egemonia mondiale. Il dominio sulla scienza diventa così una dimensione della stessa guerra per la supremazia economica e geopolitica, segno che anche il progresso tecnico, nel capitalismo, non è mai neutrale ma parte integrante dei rapporti di classe e della riproduzione dell’imperialismo.
3. Guerra e militarizzazione come forma di gestione della crisi
Con l’esaurirsi della capacità di accumulazione produttiva, la guerra torna a essere un elemento strutturale del capitalismo occidentale.
Negli Stati Uniti, il complesso militare-industriale rappresenta da decenni un pilastro della riproduzione economica: la spesa per la difesa sostiene la domanda, l’innovazione e i profitti delle grandi imprese tecnologiche e dell’energia.
In questa prospettiva, la guerra non è più solo una scelta politica contingente, ma un vero e proprio meccanismo di regolazione dell’economia capitalistica in crisi.
La NATO si è trasformata in strumento di espansione permanente. La sua funzione non è più la “difesa collettiva”, ma la gestione armata dello spazio globale a garanzia dell’ordine occidentale.
Le guerre in Jugoslavia, Afghanistan, Libia e oggi in Ucraina segnano tappe di un percorso di militarizzazione crescente.
Nell’attuale fase del capitalismo, la guerra assume una funzione sistemica: serve a distruggere capitale eccedente, riorganizzare mercati, rilanciare la produzione e consolidare la coesione interna.
Il conflitto armato, la minaccia militare, la guerra economica e le sanzioni diventano strumenti equivalenti di una stessa logica di dominio.
La guerra non è l’opposto della politica, ma la sua continuazione con altri mezzi — nella forma di una politica economica dell’imperialismo.
L’Unione Europea partecipa pienamente a questa dinamica: incrementa la spesa militare, coordina la produzione d’armi, invia missioni esterne, accetta la logica dell’allineamento alla NATO e alle strategie statunitensi.
Il riarmo e il ritorno della guerra nel continente europeo segnano una rottura storica: l’Europa è parte attiva della competizione globale per la sopravvivenza del capitalismo occidentale.
4. La transizione multipolare e le sue contraddizioni
La crisi dell’egemonia statunitense apre una fase di transizione verso un ordine multipolare.
L’emergere di nuovi poli — Cina, Russia, Sud Africa, India, Iran, Turchia, America Latina — non è soltanto un fatto geopolitico, ma il risultato del trasferimento storico di capacità produttiva e tecnologica verso le ex periferie.
Il multipolarismo è dunque il prodotto contraddittorio della stessa globalizzazione che aveva cercato di eternare il dominio occidentale.
In questa transizione, la sovranità nazionale e il controllo delle risorse tornano al centro dello scontro.
Gli Stati cercano margini di autonomia, ma restano dentro la logica della competizione capitalistica. Il multipolarismo non è di per sé alternativo al capitalismo: è il terreno sul quale si ridefiniscono le gerarchie globali.
Tuttavia, la sua esistenza rompe l’universalismo occidentale e riapre spazi per processi di emancipazione politica e sociale.
Il nuovo equilibrio mondiale non è stabile né pacifico.
Le potenze emergenti sono attraversate da proprie contraddizioni di classe e da tensioni tra sviluppo interno e proiezione esterna.
La multipolarità può quindi evolvere in direzioni diverse: verso un pluralismo di potenze in conflitto o verso una transizione più ampia, capace di mettere in discussione la logica del profitto.
5. L’eredità storica del movimento comunista
L’esperienza del movimento comunista del Novecento non appartiene solo alla memoria storica: essa continua a produrre effetti materiali e culturali.
La pianificazione, la centralità del lavoro, l’idea di uno sviluppo orientato ai bisogni collettivi restano elementi di riferimento per comprendere il possibile oltre il capitalismo.
Nel contesto multipolare riemergono soggetti che furono protagonisti del secolo scorso.
La Cina, in particolare, ha saputo combinare crescita economica e controllo politico, dimostrando che è possibile utilizzare lo Stato come strumento di direzione dello sviluppo.
Anche altri paesi — dal Vietnam a Cuba, fino ad alcune esperienze latinoamericane — mantengono viva la prospettiva di modelli alternativi di sovranità popolare.
L’Europa, al contrario, mostra la sterilità di un progetto privo di visione sociale.
L’integrazione economica senza solidarietà e la subordinazione alla NATO hanno trasformato l’UE in una struttura al servizio del capitale finanziario e della guerra.
Nel contesto della crisi multipolare, essa non riesce a proporre un modello alternativo né a difendere i propri popoli dalla crisi energetica, economica e politica.
Il dibattito sul secolo passato — e sulla sua eredità rivoluzionaria — indica che la spinta propulsiva del movimento comunista non è terminata, ma si trasforma.
Le esperienze del socialismo reale, con le loro conquiste e contraddizioni, restano il laboratorio storico da cui ripartire per immaginare forme nuove di organizzazione e di potere dei lavoratori.
6. Antimperialismo e progetto alternativo
Nella nuova fase mondiale, l’antimperialismo non può ridursi alla denuncia morale del dominio occidentale: deve tradursi in un progetto politico di trasformazione dei rapporti di produzione e di potere.
L’imperialismo oggi non è solo militare, ma economico, tecnologico e culturale.
La lotta contro di esso implica la costruzione di forme di cooperazione e solidarietà tra i popoli che rompano con la subordinazione al capitale globale.
Il recupero della sovranità popolare, la pianificazione economica, il controllo delle risorse strategiche e l’integrazione solidale tra Stati del Sud globale sono elementi centrali di una prospettiva alternativa.
La transizione multipolare, se orientata in senso progressivo, può aprire spazi per la cooperazione tra paesi e classi subalterne contro l’imperialismo.
La guerra permanente rappresenta la massima espressione della crisi dell’Occidente.
Essa dimostra che il sistema non ha più margini di riforma e ricorre alla distruzione come unica via di sopravvivenza.
Contro questa logica, l’antimperialismo diventa oggi il terreno decisivo di unificazione delle forze popolari e dei soggetti che mirano a un nuovo ordine sociale internazionale.
7. Sindacato di classe
In questa fase storica in cui la guerra, la crisi economica e la competizione interimperialistica stanno aprendo scenari sempre più drammatici, in cui i costi economici e sociali di questa nuova fase di duro scontro internazionale stanno ricadendo pesantemente sui lavoratori/trici dei Paesi europei che pagano queste scelte in termini di riduzione del welfare, attacco ai salari, alta inflazione, fortissimo aumento del costo della vita.
Lo spostamento di risorse ingentissime da parte dei governi dei vari Stati dal welfare e dalle esigenze sociali alle spese per armamenti stanno determinando la necessità sempre più impellente di organizzare la protesta sindacale e sociale, a livello internazionale.
Il coordinamento delle organizzazioni sindacali di classe e la ripresa del conflitto diventano elemnto necessario.
Noi come usb in italia e le organizzazioni affiliate alla FSM sono in tutti i Paesi alla testa delle lotte e degli scioperi che coinvolgono milioni di lavoratori e lavoratrici, che bloccano la produzione e i servizi e che avanzano non solo richieste strettamente sindacali ma che pongono al centro anche lo scontro con il modo di produzione capitalistico e la necessità di una profonda trasformazione sociale.
La risposta alla ripresa delle lotte, anche se con diversa intensità, in tutti i paesi europei è violenta sia sul piano della repressione che su quello del disciplinamento regolamentare. Non solo le denunce, gli arresti, le condanne che hanno colpito tutti i settori di avanguardia delle lotte e degli scioperi, ma anche una fortissima stretta sul piano giuridico per tentare di ingabbiare le lotte dentro una serie di provvedimenti restrittivi delle libertà sindacali, di sciopero e di organizzazione.
Il padronato, la borghesia, i governi sanno perfettamente che questa fase di intenso sfruttamento, di riduzione dei salari, di nuova austerità durerà nel tempo e che questo provocherà inevitabilmente un contrattacco da parte della classe con l’aumento delle proteste, delle mobilitazioni e degli scioperi organizzati e guidati dal sindacalismo di classe.
Il sindacalismo di classe non ha un solo nemico, nel conflitto tra capitale e lavoro si è inserito il conflitto tra lavoro e sindacalismo complice di accompagno delle politiche capitaliste e di sfruttamento. Quel sindacalismo la cui mission è la riduzione del danno, piuttosto che la difesa degli interessi di classe e la lotta per cambiare il modo di produzione capitalistico.
Occorre che la FSM, attraverso i sindacati europei ad essa affiliata, indichi alle lavoratrici del nostro continente una prospettiva di lotta a 360 gradi che, partendo dalle legittime rivendicazioni per l’emancipazione da una assurda e strumentale minorità nei luoghi di lavoro, si pongano alla testa del più generale conflitto di classe al quale sono chiamati tutti i lavoratori.
La guerra è tornata ad essere lo strumento principale con il quale il polo imperialista euro atlantico e il suo strumento militare, la NATO, tentano di risolvere una crisi sistemica senza precedenti del capitalismo. Su questo terreno occorre concentrare tutte le nostre energie di sindacati di classe. Per l’ennesima volta nella storia recente gli interessi dei lavoratori sono legati inscindibilmente alla lotta contro la guerra, nei propri paesi nelle forme suddette e a livello planetario. Torna di estrema attualità la parola d’ordine “guerra alla guerra”, con la quale il movimento operaio europeo si contrappose alla tragedia della prima guerra mondiale. In una situazione profondamente differente da quell’epoca, i nostri nemici di classe stanno riportando tutta l’umanità sull’orlo di un conflitto che rischia mettere fine all’esistenza stessa del genere umano sul pianeta.
Questo riteniamo sia il terreno sul quale impegnare le nostre lavoratrici e i nostri lavoratori nell’immediato futuro. Una lotta senza quartiere contro la guerra economica e sociale interna promossa dal padronato continentale attraverso il polo imperialista europeo e i sindacati complici