Catalogna una lezione di partecipazione e determinazione democratica. Dai nostri inviati a Barcellona

Nazionale -

Dalla Repubblica di Catalogna

Lunghe file di gente che disciplinatamente e con grande determinazione si dispone a votare. Una moltitudine di donne e di uomini di tutte le età che fin dalle primissime ore del mattino attende l’apertura dei seggi, aspettandosi che da un momento all’altro l’arrivo dei blindati della polizia nazionale, mandati a sequestrare le urne ed impedire fisicamente lo svolgimento del referendum. Questa è la scena che presenta la Barcellona del 1 di ottobre. Alle 6 del mattino in molte scuole ci sono già centinaia di persone che aspettano. Noi della delegazione dell’USB giriamo frenetici da un seggio all’altro, filmando e raccogliendo pareri ed interviste, mentre sugli indirizzi twitter attivati per seguire gli avvenimenti cominciano a circolare le prime notizie di interventi di forza. Non c’è paura tra la gente, né si vedono reazioni scomposte: tutti sanno quello che può succedere e la volontà è unica, riuscire a votare.
La giornata è lunga e quando scriviamo non sono ancora le 17. Centinaia di feriti, diverse irruzioni in molti seggi, altri seggi invece sono stati chiusi. Assistiamo fisicamente all’aggressione al seggio installato nella Cancelleria di Educazione (paragonabile al nostro assessorato regionale all’Istruzione) nel quartiere di san Gervasio. Venticinque blindati della polizia nazionale, circa 250 uomini, diversi dei quali con il volto coperto da passamontagna, si fanno largo tra la folla per riuscire a portar via gli strumenti ufficiali del referendum, le schede, le urne, le liste elettorali. In televisione la vicepresidente del governo Rajoy dichiarerà intorno alle 15 che “non c’è stata neanche un’apparenza di referendum” perché mancavano le urne e le schede e le persone potevano votare in qualsiasi seggio: una dichiarazione paradossale di fronte a tutti gli atti messi in campo dal governo di Madrid per impedire il regolare svolgimento della consultazione. Quando finalmente la polizia se ne va, accompagnata dai cori di “fuori gli occupanti”, le operazioni riprendono regolarmente. Gli operatori dei seggi informano sulla necessità di avere pazienza ed aspettare che la rete telematica torni a funzionare e la gente si rimette ordinatamente in fila.
Che vuole tutta questa gente che con tanta ostinazione continua a gridare “votarem” (voteremo) in faccia alla Guardia Civil anche quando comincia a picchiare? È nazionalismo il loro o c’è qualcosa di diverso che anima questa protesta così ampia che sta unendo intere generazioni oltre l’immaginabile? È questa la domanda principale attorno a cui ruotano le nostre osservazioni. Un signore di 93 anni ci racconta che in Catalogna la Repubblica è già stata proclamata due volte, nel 1931 e nel 1934 e che non hanno smesso di credere che alla fine il popolo vincerà. Catalogna llure (libera) non è solo una rivendicazione di indipendenza, chi lo afferma mente oppure semplicemente non sa di cosa parla. C’è dentro questa lotta un desiderio di libertà, una voglia di chiusura definitiva con la storia franchista e oscurantista del passato, e una grande spinta verso l’affermazione di nuovi e vecchi diritti che non trovano riconoscimento nella Catalogna spagnola di oggi. Questo popolo sta chiedendo di scegliere il proprio destino ma non solo con il referendum, perché già a Barcellona governa una sindaca molto particolare che viene fuori dai movimenti per il diritto alla casa e difende ostinatamente i beni comuni della città. La richiesta di indipendenza ha certo forti radici nel passato ma si intreccia con nuove aspettative. È qui che solo qualche mese fa si è tenuta una manifestazione oceanica contro l’idea di “città per il turismo”, completamente soggiogata alla logica del mercato, ed in favore dell’accoglienza per i migranti.
Una signora ci ha descritto il significato dell’urna portata via dalla polizia nazionale, non un’urna elettorale secondo lei ma funeraria, a simboleggiare la morte dell’Unione Europea e di ogni parvenza di democrazia nel nostro continente. In fondo questo referendum somiglia a quello che l’UE non voleva che si tenesse in Grecia, che il governo Tsipras fece celebrare per poi tradirne l’esito qualche settimana dopo. Anche questo referendum catalano è osteggiato fortemente dall’UE e, come in Grecia, non c’è alcuna volontà di assecondare l’opinione della maggioranza dei votanti. Il nesso tra le due consultazioni sta nel prendere atto che dentro l’UE non c’è più spazio per la democrazia, né per immaginare un altro futuro sia politico che economico e sociale. Questo spiega perché il 3 ottobre, a soli due giorni dal referendum, è stato proclamato uno sciopero generale da parte di un vasto arco di organizzazioni sindacali di base, uno sciopero sopportato a stento dai sindacati ufficiali, come i nostri a corto di consenso tra i lavoratori. L’assenza di democrazia non si manifesta certo soltanto sul tema del diritto di voto ma spazia dai diritti del lavoro al tema del welfare (in via di privatizzazione) al diritto alla casa, a quello alla pensione, ecc. Questione sociale e questione democratica sono strettamente legate e quando in Catalogna si rivendica il diritto a decidere non è certo solo in materia di indipendenza nazionale.
A san Andreu de la Barca, a venti minuti da Barcellona, ci raccontano che la Guardia Civil è già venuta due volte da stamattina, ha arrestato e picchiato perché “non vogliono farci votare”. Mentre scriviamo arriva la notizia che dai paesi limitrofi hanno costituito in fretta e furia un unico seggio elettorale a Montserrat, lì vicino, perché comunque “votarem”. Questo popolo ha un tale desiderio di libertà e trasmette un entusiasmo così potente che davvero sembra possibile la nascita della Repubblica di Catalogna. Se dovesse succedere sarebbe un segnale enorme per tutta l’Europa, una rottura che aprirebbe nuove prospettive per tutti.


Unione Sindacale di Base